Vi siete mai domandati perche’ raccontiamo storie?
Se facciamo attenzione, in ogni cultura, possiamo notare come sia forte e spesso impellente il desiderio di passare ad altri una conoscenza precisa oppure una diceria vaga e senza confini se non quelli delle storie stesse, ondivaghe, che fluide passano da persona a persona.
” I talenti epici sono piuttosto frequenti in Oriente. In ogni famiglia c’e’ uno zio che sa raccontare storie. si tratta per lo più’ di poeti silenziosi che rimuginano tra se le loro storie, oppure le inventano al momento e le modificano mentre le raccontano” annota nel suo libro sugli ebrei orientali Joseph Roth (Joseph Roth, Ebrei Erranti, Milano 1985, il libro apparve per la prima volta a Berlino nel 1927 presso le edizioni ‘Die Schmiede’). Ancora Walter Benjamin come “Considerazione sull’opera di Nicola Leskov” aveva predetto la morte dello scrittore-narratore, di colui cioè’ che costruisce la sua narrazione sulle storie raccontate da altri.
Provate ad immaginare, in qualsiasi tradizione popolare una figura come ad esempio quella della zia Yentl, tipica della tradizione letteraria dell’Europa Orientale. Esattamente come fa la zia Yentl nel racconto L’Immagine (Isaac Bashevis Singer, L’Immagine, Milano 1987, traduzione di Mario Biondi): Zia Yentl si sfrego’ la fronte, quasi si fosse dimenticata che ne aveva in mente una. “Che cosa? Ah si! E’ successo a Krashnik…”
Il raccontare storie e’ un’arte antica e condivisa da molti popoli. A volte quest’arte rivive laddove era stata dimenticata o smarrita.
Noi dobbiamo raccontare. I poveri e derelitti lo fanno spesso. Se vi fermate per strada a parlare con un vagabondo, di quelli che puzzano e sono vestiti di cenci neri e lisi simili ad un cielo invernale ricco di nuvole grasse, potreste scoprire gemme inaspettate.
Ho scoperto da tempo, che quelli che noi riteniamo senza voce, invece a volte, ne hanno una molto forte.
Impariamo ad ascoltarli.