Today (again) I am a Jew.
I was killed in Denmark and hundreds of my graves where desecrated in France.
Again and again I am a Jew.
Until when?
Today (again) I am a Jew.
I was killed in Denmark and hundreds of my graves where desecrated in France.
Again and again I am a Jew.
Until when?
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Dalle finestre di casa mia entrava una melodia mediorientale lenta e simile a un lamento infinito ma nello stesso tempo composto da una magia che fino a quel momento non avevo mai conosciuto. Era come se quelle note fossero in realtà’ angeli che danzavano liberi nell’aria tiepida. Quella musica continuava dal mattino alla sera quando si mischiava al rumore che arrivava dalle vie circostanti.
Il mio palazzo si trovava infatti in una delle zone più’ vivaci di Gerusalemme. C’erano negozi di tutti i tipi e per tutte le tasche. I bar erano numerosi e i tavolini si confondevano a quelli dei ristoranti per turisti sempre pieni di gente che beveva, mangiava, rideva, raccontava e si parlava addosso.
I musicisti da strada si esibivano di continuo. Uno in particolare mi aveva colpito per la sua abilita’. Era un violinista che mi ricordava quello magro e accovacciato sul tetto di “Fiddler on the Roof”, quello stesso che alla fine del film segue Tevye e la sua famiglia cacciata insieme a tutti gli ebrei da Anatevka.
Era magro e allampanato. Altissimo. Con i vestiti che sembrava non volessero stargli addosso. La sua musica era incalzante ma nello stesso tempo triste.
Musica da Shetl. Musica da fantasmi e dybbuk. In fondo era quella musica da morti. Avevo iniziato a scoprire che qui a Gerusalemme anche i fantasmi potevano essere compagni di viaggio.
A lungo restavo in piedi ad ascoltare quel musicista appoggiato a un muro scrostato. Lo “struscio” notturno di Ben Yehuda era in pieno svolgimento come se all’improvviso tutti si fossero dati appuntamento in quella parte’ della città’. La gente se ne stava seduta ai tavoli di bar e ristoranti a parlare, bere, mangiare, ridere. I camerieri con sveltezza entravano e uscivano dai locali zigzagando in mezzo a tavoli e tavolini portando destramente sui loro vassoi varie quantita’ di cibo e bevande. Mischiati a quella folla, camminavano tranquillamente soldati con volti infantili di entrambi i sessi. Erano poco più’ che ragazzi e pure portavano a tracolla minacciosi fucili mitragliatori. Lo facevano con una distratta normalita’ come se quella fosse la cosa più’ semplice di questo mondo. Tristemente per loro, lo era.
In mezzo a questo quotidiano purim serale Mordechai continuava a suonare la sua musica meravigliosa. Un passante distratto di tanto in tanto lasciava cadere una piccola banconota o qualche moneta in un barattolo di latta che teneva ai suoi piedi.
Mordechai era un fantasma tornato da un mondo sparito e lontano. In quella grande confusione la sua musica saliva al cielo e forse andava direttamente alle orecchie di Dio. Quasi fosse una preghiera. Una supplica per il Creatore dell’universo.
Feci la sua conoscenza per caso qualche giorno dopo.
A pochi metri dal portone del mio palazzo c’era un piccolo caffè’ che io avevo eletto mia prima tappa quotidiana. Me ne stavo seduto a un tavolino in penombra, mi accendevo la seconda sigaretta della giornata, ordinavo un caffè’ espresso accompagnato da una bottiglietta di acqua minerale non gasata e iniziavo a legger il Jerusalem Post che essendo in inglese potevo comprendere.
Quel mattino la strada era ancora assonnata e semi deserta. Il sole giocava sapiente con le ombre che lui stesso creava. Spunto’ all’improvviso in mezzo a quel gioco di luci estivo. Mordechai camminava lentamente venendo verso di me. Lo faceva tenendo la testa reclinata leggermente in avanti e con le mani dietro la schiena. I suoi vestiti erano logori e sporchi e sembravano essere più’ appesi a una stampella ambulante che indossati da un essere umano. Una barbetta rada gli incorniciava il volto emaciato e quasi senza carne. Mentre passava davanti a me si fermo’ di scatto come se fosse stato assalito da un pensiero improvviso. In quel momento mi vide e piegando la testa da un lato, mi sorrise beffardo, mostrandomi i suoi denti che erano scarsi e marci e di un colore indefinibile perso tra il giallo e il nero. Si avvicino’ al mio tavolino chiedendomi qualche cosa in ebraico.
“mi dispiace ma non parlo ebraico” dissi in inglese. Mordechai non si scompose più’ di tanto. Assenti’ con un gesto impercettibile della testa lanciandomi uno sguardo che mi parve beffardo. E subito dopo passo’ a un inglese perfetto.
“Vuole gentilmente offrirmi una sigaretta?”
Mordechai aveva gli occhi da pazzo. Erano enormi. Due buchi neri infiniti. Aveva un naso rosso, gigantesco, attraversato da piccole vene azzurre che s’intricavano tra di loro come se fossero una minuscola rete stradale.
“Prego” dissi, prendendo il pacchetto di sigarette dal taschino della mia camicia. Mordechai l’afferro’ con la mano sottile dalle dita straordinariamente lunghe. Lunghe come non ne avevo mai viste in vita mia. Dopo che l’ebbe accesa aspiro’ una boccata ingorda facendo bene attenzione a tenere parte del fumo dentro quei polmoni che immaginai essere in condizioni disperate.
“Ah! buona”
“una di più”? Per dopo?” fu la mia offerta.
Il Violinista di Ben Yehuda mi guardo’ in silenzio sgranando quei suoi occhi enormi pieni di pazzia.
“tu sei un principe, e io accetto la tua offerta. Uno schnorrer come me non rifiuta mai le rare offerte generose che riceve”
Lo invitai a sedere con me.
“perche’ non siede con me e mi tiene compagnia, sempre che lei non abbia fretta o debba andare in qualche posto”
Ancora adesso dopo tanto tempo avverto ancora sulla pelle lo sguardo da folle di Mordechai che resto’ a fissarmi in silenzio. Non posso dire per quale motivo l’avessi invitato. Cosa sperassi di apprendere da quella conversazione. Forse era solo perché’ l’avevo sentito suonare in modo sublime quasi da far diventare il suo violino un essere umano con la musica che sembrava essere ora gemiti dolorosi, ora risate felici ora lamenti millenari. Forse tutto questo mi aveva fatto crescere la voglia di conoscere la sua storia che prevedevo fantastica. Ero curioso di sapere di più’ su di lui, che pur sciorinando risposte che a prima vista non avevano alcun senso doveva aver vissuto in modo diverso. Qualche cosa in lui si era rotto. L’onda della sua vita aveva smesso di spingere verso la riva comune e invece se ne era tornata verso il mare aperto. Verso l’oblio.
O forse gli avevo chiesto di sedersi al mio tavolo perché’ ero solo.
Solo come un cane.
Con un ghigno Mordechai si sistemo’ comodamente su una sedia vicino a me.
“siedo volentieri fratello mio sconosciuto, ma non solo per un caffè’, che ne diresti invece di offrirmi una colazione intera?”
Decisi che un paio di Marlboro e una colazione fossero un giusto prezzo da pagare per fare la conoscenza con il fiddler di Ben Yahuda.
Mi sussurro’ il suo nome sotto voce, quasi fosse un segreto di stato.
“Mordechai. Il mio nome e’ Mordechai e del tuo invece non mi interessa. Non voglio sapere come ti chiami.”
Mi guardava beffardo e per nulla imbarazzato dalle rovine che una volta erano state i suoi denti. L’espressione del volta stava mutando diventando oscura e minacciosa. Avevo capito che non potevo aspettarmi da lui risposte normali. Tentai di cambiare argomento.
“che cosa desidera per colazione?”
“paste…io amo le paste e tutte le cose dolci che esistono in culinaria, come il lakach che qui in Israele si mangia alla vigilia del Capodanno. E’ buono, fatto con il miele…ti piace il miele? Ah! Io ne vado pazzo! Ah! Così’ come amo le gallettes des rois a’ la frangipane, e la ciambella dei Re Magi per non parlare della treccia greca che si mangia a capodanno (quello greco naturlich…) Oh! Il dolce bretone! Io amo i dolci perche’ non posso sopportare nel modo più’ assoluto tutto quello che e’ amaro, che non esiste armonia nell’amarezza. Lo hai mai notato? Ma lascia stare per favore. Io so che tu non sei ebreo”
“Non sono ebreo ma vivo qui a Gerusalemme”
“ahhh, eh? Nu?”
Se ne stava ora in silenzio a fissarmi con quei suoi occhi da pazzo. Grossi ciuffi di peli neri gli uscivano dal naso e dalle orecchie.
“Sei forse un cristiano che vuole fare breccia nelle mura di Gerusalemme?”
“essere cristiani non ti rende automaticamente crociato”
“Ah! no! eh…Nu?” Mordechai mi lanciava occhiate di traverso e un mezzo sorriso da folle saggio gli apparve sulla bocca. Poi continuo’.
“Il ventisette Novembre dell’anno millenovantacinque dell’era cristiana alla chiusura del concilio di Clermont il papa Urbano Secondo, chiamando a raccolta i cavalieri del mondo Cristiano e li esorto’ a punire quello mussulmano e a liberare i sacri luoghi cristiani della Terra Santa. Quella Crociata termino’ sulle mura di Gerusalemme nel giugno del millenovantanove con una vittoria di incredibile portata per tutto il mondo cristiano”
Chi era dunque quest’uomo che parlava con accuratezza della Storia di quelli che in fondo erano stati i nemici della sua gente e che tanto da fare si erano dati per sterminarli? Era forse un saggio che aveva deciso di rifiutare il mondo e abbracciare una vita da vagabondo? Forse era uno studioso ebreo, di quelli che spendono la vita chini su testi misteriosi che improvvisamente aveva deciso di lasciare tutto e partire e alla fine era arrivato a respirare l’aria sacra di Gerusalemme. Libero di suonare la sua musica meravigliosa in libertà’ e dirigerla non verso i passanti ma verso il cielo stesso.
“allora sai quello che fecero i tuoi fratelli cristiani?”
Non ero pronto per quel tipo di conversazione. Annuendo mi accesi una sigaretta. Cercavo di non guardarlo negli occhi. Come se mi vergognassi di me stesso e di essere cristiano.
Fumavamo in silenzio.
“sei un Bal-Tshuve” mi domando’ dopo un lungo silenzio.
“mi dispiace, ma come ti ho detto prima, non parlo l’ebraico.”
Mordechai roteo’ gli occhi e poi li levo’ al cielo con l’espressione di chi stia parlando con una bambino che si ostina a non voler comprendere il significato delle cose che gli erano state dette. O come se avessi parlato da idiota cosa che evidentemente Mordechai si aspettava dal sottoscritto.
“non e’ ebraico. E’ yiddish. Significa Penitente, cioe’ quello che torna per osservare la legge” mi spiego’ con un tono sarcastico eppure paziente al tempo stesso.
Penitente? Tra i mille motivi che cercavo per cercare di giustificare la mia decisione di venire ad abitare a Gerusalemme non avevo mai contemplato questa possibilità’. Forse davvero la mia anima desiderava in qualche modo di essere mondata. Cercavo forse anch’io di tornare verso una legge di Dio? Volevo riavvicinarmi al Creatore Supremo? Dovevo ammettere a me stesso che forse quest’uomo stralunato aveva ragione.
In qualche modo siamo tutti dei penitenti. Mi tornarono in mente le parole del protagonista del romanzo “Il Penitente” di Isaac Bashevis Singer: “tutti i fatti accaduti fino a quel momento avevano congiurato a portarmi in quella città’…mai prima di allora avevo sentito con tanta forza la mano della Provvidenza”. No, ancora non mi sentivo un penitente. Mi accorsi che in fondo mi dispiaceva.
“no, non sono un penitente” dissi a bassa voce.
Il cameriere torno’ al nostro tavolo e ordinai altre paste per Mordechai e caffe’ nero per me. Mi accesi l’ennesima sigaretta. L’aria era diventata più’ calda e il cielo era completamente libero da nuvole. Un piccione solitario camminava tra i tavolini del bar, beccando in terra qualche briciola. Per un momento invidiai quell’uccello. In fondo era libero e agli occhi di Dio anche lui aveva la sua importanza.
Guardavo Mordechai riempirsi di paste. Lui era anche più’ libero del piccione. Ingollato l’ultimo pezzo di brioche si puli’ il mento con la manica sudicia della sua camicia fissandomi con quel suo sguardo allucinato.
“devo andare…devo andare, sono rimasto con te anche troppo tempo” Sorrisi. Come se io fossi Alice nel Paese Delle Meraviglie che incontra il coniglio che andava sempre di fretta. Mordechai si avvicino’a a me e un forte odore simile a quello delle cipolle mi assali’.
“non dimenticare mai la cosa più’ importante’
“e quale sarebbe?”
“der vos farshatat zein narishekeit iz a kluger…colui che e’ consapevole della sua follia e’ saggio e questo non e’ ebraico, ma yiddish”.
Se ne ando’ e lo vedevo affrettarsi in mezzo alla confusione di Ben Yehuda. Torreggiava più’ alto di tutti, camminando in fretta verso qualche destinazione misteriosa dove avrebbe suonato quel suo magico violino.
O forse scroccato sigarette a un gonzo in tutto simile a me.
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Dovevo trovare un nuovo appartamento. Mi venne dunque suggerito di usare i servizi del Signor Finkelstein.
Quando entrai nel suo piccolo ufficio dalle parti di Via King David il cambio dalla luce vibrante del pomeriggio alla semioscurità’ mi rese cieco per qualche istante e quando la mia vista si abituo’a quel cambio repentino quello che vidi mi lascio’ perplesso.
All’interno dell’ufficio del Signor Finkelstein, il caos regnava indisturbato. Carte ingiallite erano ammucchiate dappertutto. Una sedia vecchia e triste era occupata da una malridotta borsa di plastica marrone. Una polvere antica di chissa’ quanto tempo l’avvolgeva come se quella sedia fosse immersa nella farina. Gli scaffali metallici da quattro soldi erano pieni di carta e di elenchi telefonici di anni passati che mai nessuno si era curato di cestinare. Un vecchio poster della El-AL metteva in bella mostra una piacevole attendente di volo vestita nella moda degli anni settanta. Ora, forse quella donna era morta o magari portava la nipotina a spasso camminando lentamente che le vene varicose le davano fastidio.
Dal soffitto pendeva un lampadario di forma straordinaria, con piccole mani che tenevano, o meglio avrebbero dovuto tenere le lampadine che ovviamente mancavano. Il colore giallo di quel lampadario era sposo perfetto della sua stessa forma bizzarra. Non c’erano finestre nell’ufficio del Signor Finkelstein, ma posta di lato una porta restava sospettosamente chiusa.
Lui, il Signor Finkelstein era al telefono continuando a parlare ad alta voce senza neppure degnarmi di uno sguardo. Dopo un periodo che mi sembro’ straordinariamente lungo e non appropriato, se vogliamo considerare il fatto che io potevo essere un nuovo cliente, il Signor Finkelstein mi fece un cenno con la testa come se finalmente si fosse reso conto che un essere umano era entrato nel suo ufficio. Allo stesso tempo pero’ continuava a parlare al telefono. In Russo.
Mi era stato spiegato che la maggior parte dei clienti del Signor Finkelstein erano immigranti dall’ex Unione Sovietica. Poveracci affamati come locuste e che per i quali trovare un alloggio oltre che una necessita’ era un fatto atavico e quasi disperato dopo gli anni di sofferenza nella patria del comunismo. Il Signor Finkelstein restava pero’ seduto dietro la sua grande scrivania che era fatta di un materiale misterioso e dall’origine incerta. Suddetta scrivania era sommersa da un disordine primordiale che forse era esistito solo all’alba della formazione dell’universo. Un caos tale che sono sicuro mai scrittore riuscirebbe a descrivere. Forse, solo la lente di un fotografo.
Almeno cinque o sei tazze sporche se ne stavano allineate vittime innocenti di una guerra perduta contro l’ordine e la pulizia. Mi facevano pensare a un cimitero di carri armati in miniatura. Mentre me ne stavo sospeso in quel limbo polveroso e insicuro fui assalito dal desiderio di fuggir via da quel buco nero in cui avevo l’impressione di essere precipitato e trovarmi invece un vero agente immobiliare, uno di quelli con un bell’ufficio arioso pieno di luce con una segretaria attraente magari con un bel sorriso, pronta ad offrirmi un caffè’ o una bottiglietta di acqua fresca. Uno di quelli con le riviste nuove messe con cura su di un tavolino lucido disegnato da un creativo italiano o finlandese, di quelle che servono ad aiutare il cliente a far passare il tempo. Riviste aggiornate e non che avessero ancora il ghigno di Nixon e il Watergate in copertina.
In quel preciso momento come se mi avesse letto nel pensiero, il Signor Finkelstein attacco’ il ricevitore del telefono e uscendo da dietro la sua scrivania si precipito’ a stringermi la mano investendomi allo stesso tempo con una tempesta di parole in russo mischiate alla saliva. Fatto questo che devo confessare non fu bene accetto dal sottoscritto. Mi allontanai di un passo da lui per sottrarmi alla sua saliva e confessai di non parlare russo.
“Che cosa posso fare per lei?” mi rispose il Signor Finkelstein passando a un inglese perfetto e ombrato da un vago accento americano. A questo punto ebbi il forte dubbio che il Signor Finkelstein mi stesse sorridendo ma forse era solo una smorfia lontanamente simile a un sorriso. Fece un passo verso di me e mi tese la mano. Il Signor Finkelstein, esimio agente immobiliare di Gerusalemme, era una di quelle persone che quando stringevano la mano non metteva nessuna forza muscolare nel compire quel gesto. Lascio’ semplicemente le sue cinque dita morbide e indifese nella mia mano quasi come se questo fosse un gesto di fede. Aveva due grandi occhi azzurri resi enormi dalle lenti da astigmatico. Ea basso, quasi calvo, con grossi ciuffi di peli neri e ribelli che gli uscivano con prepotenza dalle orecchie e dal naso.
Indossava un abito logoro, di un vago colore bluastro e che necessitava a mio avviso di un urgente viaggio in lavanderia o meglio ancora verso il più’ vicino bidone della spazzatura. Le maniche della giacca erano troppo lunghe e gli nascondevano quasi per intero le mani così’ che il Signor Finkelstein mentre parlava muoveva in continuazione le braccia in un gesto rapido verso l’alto dando l’impressione che fosse affetto da uno strano tic nervoso.
A volte, le prime impressioni non sono quelle giuste, perché’ il Signor Finkelstein a dispetto delle condizioni del suo ufficio e del suo guardaroba si dimostro’ valido e competente. Dedicato al suo cliente e profondamente onesto. Era puntuale e pieno di risorse. Vivace e logorroico, ma anche determinato e ottimista. Per giorni e giorni mi scarrozzo’ in lungo e in largo per Gerusalemme mostrandomi diversi appartamenti ognuno dei quali possedeva secondo lui enormi possibilità’ e certamente aveva dei grandi pregi. Ancora oggi sono convinto che lo pensasse veramente così’ come una madre amorevole non vede le nostre debolezze ma solo i nostri talenti. Il Signor Finkelstein ammirava solo l’aspetto positivo di ogni appartamento. Non importa se fosse troppo piccolo “ma gode di una vista meravigliosa!” o avesse le mura divorate dall’umidità’ “e’in una zona fantastica della città'”, o troppo lontana dal centro , zona in cui io volevo vivere “guardi quanto e’ spaziosa la cucina!” . Resto fermamente convinto che le sue non fossero false pretese da venditore bensì’ convinzioni forti e radicate. Egli non cercava di abbindolarmi. Nutro la convinzione che il Signor Finkelstein considerasse la sua professione alla stregua di una missione, che era poi quella di trovare una dignitosa abitazione per ognuno dei suoi clienti, perché’ come mi disse una volta “ogni essere umano deve avere un tetto sopra la testa”.
Era instancabile. Attraversavamo Gerusalemme a bordo della sua vecchia Ford dal colore indefinibile che aveva deciso di lasciare il passo alla ruggine che avanzava inesorabile sulla carrozzeria. Era sempre convinto che il prossimo appartamento sarebbe stato perfetto per le mie esigenze e dunque per la mia stessa vita come se il Signor Finkelstein mi conoscesse da sempre. La sua energia era infinita come se avesse una potente dinamo interna che non smetteva mai di lavorare.
Avrei voluto conoscerlo meglio, perché’ sono sicuro che dietro alla sua bizzarria, al suo aspetto trasandato e al suo agire peripatetico ci sia stata una storia straordinaria.
Mi piace pensare che un giorno, forse in Paradiso, il Signor Finkelstein si dia un gran daffare per trovare l’appartamento adatto per qualche Santo.
O forse anche per l’Onnipotente stesso.