” La piccola città’ era situata al centro di una pianura e non c’e monte o bosco che la delimiti. Si estende in piano. Comincia con piccole capanne e con piccole capanne finisce. Le case succedono alle capanne. e da qui partono le strade…Al loro punto d’incrocio si trova la piazza del Mercato. All’estremità’ della strada nord-sud c’e la stazione ferroviaria. Una volta al giorno arriva un treno passeggeri…Quando piove si deve prendere una carrozza perché’ la strada e’ lastricata e l’acqua vi ristagna. La povera gente si raggruppa e prende un’unica carrozza, dove riescono a trovar posto sei persone che pero’ non possono star sedute. Il ricco siede da solo in una carrozza e per la corsa paga più’ di sei poveri…Gli otto vetturini sono ebrei. Sono ebrei devoti che non si tagliano la barba, e tuttavia non indossano il lungo caffettano di alcuni loro correligionari…Il sabato non guidano. Di sabato del resto nessuno ha niente da fare alla ferrovia. La città’ conta 18,000 abitanti, 15,000 dei quali sono ebrei…dei 15,000 ebrei, 8,000 vivono di commercio. Sono piccoli bottegai, bottegai più’ grossi e grandi bottegai. Gli altri 7,000 sono piccoli artigiani, operai, portatori d’acqua, studiosi, addetti al culto, inservienti della sinagoga, insegnanti, scrivani, copisti della Tora’, tessitori di Tallet, medici, avvocati, impiegati, mendicanti e poveri disgraziati che vivono della pubblica carità’…”
Questa e’ una tipica cittadina ebraica dell’Europa orientale, illustrata magistralmente da Joseph Roth nel suo libro Ebrei Erranti (Milano 1985). questa era la Shtetl, il mondo antico e perduto. Una realta’ sociale antica di centinaia di anni, nel cuore dell’Europa, ma sorprendentemente lontana e distante. oggi purtroppo dimenticata. Un mondo antico per molti versi misterioso e inaccessibile che ‘e stato distrutto dalla follia dell’uomo, anche se ancora abbondantemente descritto in magistrali pagine della letteratura Yiddish.
Per gli ebrei che vivevano nella Shtetl la vita era dura, sia per gli adulti che per i bambini che erano costretti a vivere un’infanzia brevissima. A quattro anni iniziavano ad andare al cheder, la scuola elementare giudaica, dove trovavano molto spesso maestri ignoranti e brutali che li subissavano di angherie e che rendevano la loro vita dura anche fuori dalle misere pareti di casa. Poiché’ la maggior parte degli abitanti della Shtetl non la si poteva certo considerare ricca. Si trattava di piccoli artigiani, a volte contadini, venditori ambulanti o persone che lavoravano nell’ambito della comunità’. Molto spesso lo stesso rabbi versava in cattive condizioni sopravvivendo con quello che la comunità’ pagava quando si recava da lui per redimere qualche controversia di tipo spirituale o materiale. E va da se’ che essendo le comunità’ spesso povere, anche la loro guida se la passasse male.
La cultura ebraica attinge le sue origini da una tradizione millenaria. E’ inevitabile perciò’ una ricchezza fuori dal comune di componenti ultraterrene e imbevute di antica superstizione.. La stessa essenza dell’ebraismo, e cioè’ Jahwet e quello che da Lui deriva (praticamente tutto), oltre a essere sacro, e’ magico. E di questa magia la tradizione degli ebrei orientali era intrisa sino all’osso. Il confine tra il sacro e il magico può’ essere sottile e ambiguo. Di questa ambiguità’ la Shtetl era intrisa. Il tipico abitante di ogni piccolo paese, villaggio o borgo dell’Europa orientale, credeva ad ogni sorta di superstizione.
Questo mondo e’ stato distrutto. Ricordiamolo, così’ che forse noi possiamo imparare dal passato e spargere dunque amore. Non odio.